Negli spostamenti non si nascondeva mai, rispettava tutti, anche chi era sottoposto alle sue inchieste rigide ma sempre aperte alla collaborazione. Antonio Marini viveva così, cercando di non far pesare la sua esistenza alla famiglia sotto il tiro delle organizzazioni terroristiche. “Il giudice è quindi solo – diceva – solo con la continua ricerca della verità. Ma un buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, giusto, onesto e coraggioso”.
È volato al cielo in una notte di agosto nella capitale lo storico magistrato della Procura di Roma. Già Procuratore Generale e Avvocato Generale della Corte di Appello, era conosciuto da tutti per aver guidato i più grandi casi di cronaca giudiziaria italiana dagli anni ’70 in poi.
C’è un convincimento diffuso, oggi, che la sua morte abbia lasciato un grande vuoto. Antonio Marini era un uomo di legge capace, appassionato e serio. Una carriera di spessore. Allo stesso modo era un uomo che cercava di godersi la vita nei pochi momenti liberi, aveva la capacità di metterci sempre la faccia ed era disponibile con chiunque. Una vera rarità. La sua mondanità era spesso chiacchierata e criticata, ma tutto ciò non lo turbava affatto, anzi, lo divertiva. “Lo faccio per mia moglie Elisabetta” mi diceva sempre con il suo sorriso carismatico.
In effetti, le mogli e le compagne dei personaggi famosi e di potere sono da sempre le colonne portanti nella carriera di prestigio di chi ha successo ed Elisabetta incarna perfettamente la grande donna che sta accanto ad un grande uomo.
Si occupò di mafia e di terrorismo, rappresentando la pubblica accusa nel primo processo sul caso Moro ed in quelli dell’Achille Lauro, alle stragi di Piazza Fontana e del Rapido 904. In prima linea, con senso del dovere.
Entrato in Magistratura nel dicembre 1967 ha cominciato la carriera da sostituto procuratore a Milano, dove si occupò tra le altre cose dei fatti legati alla contestazione studentesca. Nel giugno del 1977 venne trasferito a Roma, dove per circa vent’anni ha svolto funzioni di PM, spaziando dall’antiterrorismo all’antimafia.
Al momento di andare in pensione, nel corso di un evento riservato al quale ho avuto l’onore di partecipare in qualità di invitato, rivelò il suo grande rammarico professionale, assieme ai misteri irrisolti sul caso Moro che ha contribuito a tenere aperto con le sue indagini: «Il mio cruccio è la verità monca sull’attentato a Wojtyla».
Mi mancheranno i nostri incontri con i suoi racconti che hanno impreziosito la mia vita personale e professionale, farò tesoro dei suoi consigli e gli sarò per sempre grato perché grazie alla sua amicizia ho maggiormente rafforzato la mia attenzione alle persone e il rispetto per le istituzioni.