Una volta al mese, si riuniscono al Foro Traiano, nello splendido palazzo del Gallo di Roccagiovine, un gruppo di professionisti e imprenditori romani, per condividere alcuni dei temi di attualità più importanti tra cui la tutela del patrimonio nell’era digitale e il marketing del futuro.
Lunedi 27 maggio, per dare seguito all’invito di Massimo Castracane, executive manager di banca generali e di Andrea Di Maso, sono intervenute diverse istituzioni e personalità.
Hanno aderito all’invito il Presidente dell’ordine degli Architetti di Roma e Provincia Flavio Mangione, il colonnello del GdF Dott. Fabrizio Giaccone, l’Avvocato Guido Cecinelli, Aldo Rossi Merighi e molti altri.
Il tema principale della seduta è stato il genio Italiano.
Poche persone sanno, o ricordano, che all’origine di molti oggetti utilizzati quotidianamente ci sono inventori italiani. All’estero hanno più memoria di noi e sono consapevoli dell’apporto che il popolo italiano ha avuto nel progresso e, in particolare, nei settori
Tra gli oggetti rivoluzionari che fanno parte del quotidiano e che hanno contribuito a migliorare le nostre condizioni di vita c’è il telefono, brevettato nel 1871 da Antonio Meucci, o la radio concepita nel 1895 da Guglielmo Marconi. La prima lampadina elettrica a incandescenza fu accesa il 5 maggio del 1880 e a farlo fu un italiano, Alessandro Cruto, anticipando Thomas Edison. Sempre italiana è l’invenzione della pila, l’antenata delle moderne batterie che servono per far funzionare i dispositivi portatili. A collaudarla fu Alessandro Volta intorno al 1880. Ancora oggi, nel mondo, l’unità di misura della differenza di potenziale elettrico prende il nome di volt e il fenomeno che consente il funzionamento delle pile si chiama effetto Volta.
Ma continuiamo il nostro viaggio negli oggetti che ci hanno cambiato la vita. Come non parlare allora del computer, l’innovazione tecnologica che ha maggiormente rivoluzionato la nostra quotidianità? Dai mastodontici computer degli anni ’70, si è passati ai personal computer e poi ai notebook, e infine ai tablet. Una tecnologia il cui successo non conosce precedenti. Quando si parla di questi ingegnosi dispositivi la nostra mente evoca personaggi di tutto rispetto come Steve Jobs o Bill Gates. Ma quanti di noi si ricordano di Pier Giorgio Perotto? È a questo ingegnere che dobbiamo l’invenzione della prima macchina calcolatrice con stampante, considerata il primo personal computer da tavolo. La concepì nel 1962 negli stabilimenti della Olivetti, ad Ivrea, con il nome di Programma 101. Gli americani provarono anche a copiarlo, lo fece la Hewlett Packard ma perse la causa e fu costretta a pagare 900 mila dollari di risarcimento.
L’ingegno e la creatività italiana non si fermano qui. Oltre al computer, anche il primo microprocessore al mondo porta la firma di un italiano, Federico Faggin. Fu proprio l’ingegnere vicentino a inventare nel 1971, per l’americana Intel, il “microchip”, un componente elettronico miniaturizzato che ancora oggi è il “cervello” dei computer.
Il contributo di questi inventori è stato fondamentale per il progresso tecnologico.
E se oggi possediamo dispositivi smart e confortevoli come i telefoni mobili è anche grazie a loro. Perdere questa memoria storica non giova alla nostra identità. Con questo non intendo dire che dobbiamo vivere di rendita, ma neanche mortificare il settore che più è congeniale alle attitudini degli italiani: la ricerca e l’innovazione.
Ci sono intelligenze depresse che attendono solo di essere liberate dalle catene dell’austerità. Pur avendo scienziati e ricercatori di prim’ordine in tutte le discipline, investiamo in ricerca un terzo di quello che investono gli Stati Uniti e il Giappone, e la metà di Francia, Germania e Regno Unito.
E così rimaniamo inermi dinanzi al fenomeno della “fuga di cervelli”. Sono molti gli italiani che partecipano attivamente alla ricerca internazionale all’estero e, non di rado, apprendiamo dai giornali che certe scoperte apparentemente straniere si rivelano essere italiane.
I nostri ricercatori sono presenti ovunque, ma principalmente negli Stati Uniti, in Canada, in Argentina e in vari Paesi europei. E anche se questa fuga rappresenta per noi una grave perdita economica e un mancato investimento, possiamo consolarci pensando che i ricercatori nostrani contribuiscono comunque alla ricchezza culturale dell’Italia agendo dall’estero.