Il crollo degli idoli della modernità
Il tema della supremazia della tecnocrazia e della tecnoscienza sulla vita e sulla coscienza dell’uomo ha svelato, con la crisi della pandemia da coronavirus, tutta la sua straordinaria e drammatica attualità.
I limiti politici, economici e sociali di un approccio esclusivamente “scientista” ai problemi del mondo e sul futuro dell’umanità, sono purtroppo emersi in tutta la loro clamorosa evidenza.
Il disvelamento dell’impotenza dell’uomo “onnipotente”, che grazie alla conoscenza e alla sola ragione credeva di poter dominare le dinamiche e le “trappole” della natura, ha rimesso al centro, non solo del dibattito culturale ma anche della stessa nostra vita, il tema della fede, della solidarietà, della fratellanza umana da opporre alla ideologia scientista, senza etica e valori.
L’uomo ferito dal virus riemerge perciò dall’illusione dell’autosufficienza, del dominio sulla natura, della presunzione faustiana della ragione, della tecnica salvifica. “Se si considera in se stessa la tecnica è piuttosto un bene e l’espressione di un bene, poiché essa non è che una certa specificazione della ragione nella sua applicazione al reale, ma finisce di esserlo quando la sua supremazia sui valori determina l’impoverimento dell’essere umano che viene ridotto ad una pura funzione” (Gabriel Marcel, “Gli uomini contro l’umano”).
«Se si finisce col considerare impegnativo e degno di fede soltanto ciò che si manifesta nell’ambito della scienza – aggiungeva il filosofo tedesco Max Horkheimer a metà del Novecento -, l’inevitabile risultato è la disperazione».
Il coronavirus ci ha insegnato proprio questo:
Di fronte al mistero della Natura che ci sfugge, la Fede che illumina la ragione (cfr. L’enciclica “Fides et Ratio” di San Giovanni Paolo II), ci orienta, ci assiste, ci guida nei comportamenti sociali, economici e politici proprio nei momenti più bui, dove perfino una piazza deserta può incontrare le coscienze e le speranze dell’uomo più del racconto del grande gioco della vita da parte di scienziati, politici, presunti guru e filosofi del nulla.
Di deriva materialista, illusoria e tetra, aveva parlato anche Paolo VI alla fine degli anni Settanta («la tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri») ma perfino il filosofo laico e ateo Emanuele Severino aveva tuonato, negli stessi anni, contro il nichilismo della tecnica, sostenendo che la tecnoscienza ha il suo fine nell’onnipotenza, pia illusione.
E’ il precetto di fondo della dottrina sociale della Chiesa, secondo cui lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica ma va legato allo sviluppo integrale dell’uomo.
In Caritas in veritate (Benedetto XVI, 2009) la crisi economica internazionale diventava «occasione di discernimento e di nuova progettualità» e la minaccia costituita dalla tecnocrazia, un “nuovo stile di pensiero e di azione anticristiano che dopo la fine delle ideologie, sfruttando la globalizzazione, cerca di sostituirle”. Proprio oggi l’economia e la politica si rivelano prive di una “antropologia adeguata” (San Giovanni Paolo II, Udienza generale 2 Gennaio 1980) richiamata anche nella Laudato sii da Francesco (n.118).
Anche la tecnocrazia alla quale abbiamo in larga parte lasciato gestire l’Unione europea, depotenziata dal mancato riferimento alle sue stesse radici, è apparsa totalmente incapace di elaborare l’emergenza e, davanti ai morti delle terapie intensive, ha persistito con esternazioni di alcuni suoi esponenti del tutto prive di senso.
Mai è stato più evidente quanto affermava Benedetto XVI: “L’uomo di oggi è considerato in chiave prevalentemente biologica o come capitale umano, risorsa, parte di un ingranaggio produttivo e finanziario che lo sovrasta. (…) La cultura odierna, caratterizzata, tra l’altro, da un individualismo utilitarista e un economicismo tecnocratico, tende a svalutare la persona” (udienza ai rappresentanti dell’Assemblea generale del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, 3 dicembre 2012).
Sulla pretesa di autosufficienza, di comprensione di ciò che non può essere spiegato con la materia – che il coronavirus ha definitivamente spazzato via – vanno incentrati i piani per la ripartenza, il progetto, la pianificazione del futuro.
La sopravvivenza è sempre una priorità, per l’essere umano, ma il tema centrale deve essere la tenuta morale della società, il rispetto del diritto naturale, della vita, della morte, della nascita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali. In una parola, dello sviluppo umano integrale, solidale, spirituale, naturale. L’unico che può aiutarci a stare in piedi tra le rovine lasciateci dalla bufera del covid-19 e ad orientarci anche di fronte a tragedie apocalittiche come quella della pandemia. L’unico che può farci ripartire su gambe, menti e cuore, più solidi di prima.
Un programma sulla ripartenza: Europa e solidarietà
Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, “rivolgo” uno speciale pensiero all’Europa.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito superare le rivalità del passato. E’ quanto mai urgente, sopratutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscono parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda.
“Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.
Queste parole di assoluta attualità politica ma, nel contempo, di valenza epocale, sono state pronunciate da Papa Francesco durante la Benedizione “Urbi et Orbi” della domenica di Pasqua il 12 Aprile 2020. Impossibile non cogliervi il riferimento specifico, seppur sotteso, alla crisi dell’Unione Europea a fronte della pandemia del coronavirus. Una crisi che fa riemergere tutta l’incapacità strutturale di questa Europa a dare risposte unitarie e solidali nel momento delle scelte veramente decisive.
È stato un rito celebrato in una Basilica di San Pietro deserta e solenne in cui si percepiva, palpabile, la partecipazione, remota ma attenta, di decine di milioni di persone. Fedeli che, in tutto il mondo e su tutti i mass-media dalle tv ai social, hanno ascoltato le parole del Pontefice in attesa della Benedizione “Urbi et Orbi”.
Le parole rivolte da Papa Francesco all’Europa sono parole che pesano; che rendono, senza mezzi termini e senza possibili equivoci, con grande chiarezza e anche con una forte significativa determinazione l’enorme dimensione della posta in gioco: “L’Unione Europea ha davanti a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero”.
Per affrontare questa sfida il Papa parla della indispensabilità di “dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative”; ribadisce che “l’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari”, cioè una scelta distruttiva che porta fatalmente all’implosione della stessa Unione Europea ed alla fine di quel sogno europeo di cui l’Unione avrebbe dovuto essere, e non è stato, il compimento.
Il Pontefice esprime una posizione critica molto esplicita ed accorata nei confronti della attuale Unione Europea. La descrive come ormai giunta ad un bivio decisivo ed ineludibile di fronte al quale bisogna scegliere tra la solidarietà e “l’egoismo degli interessi particolari”. Una presa di posizione così netta che potrebbe, per molti versi, anche stupire molti osservatori.
Ma, se si approfondisce adeguatamente la posizione della Chiesa Cattolica sull’argomento, si può facilmente constatare come questa linea nei confronti della evoluzione/involuzione dell’Unione Europea negli ultimi decenni attraversi, senza soluzione di continuità, gli ultimi pontificati: soprattutto quelli di San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco.
Ciò che fa la differenza, e rende tanto dirompenti queste ultime dichiarazioni di Papa Francesco, è che la pandemia del coronavirus sta mettendo a nudo, in modo eclatante, tutte le contraddizioni, le fragilità ed i pericoli di una “Unione Europea”, costruita in una logica esclusivamente economica, che è stata facilmente egemonizzata dalla ideologia neoliberista, fino a negare e recidere le radici più profonde dell’Europa, della sua storia, della sua cultura, della sua identità. Fatto che più volte, in questi anni, tutti i Pontefici hanno denunciato.
Basti pensare alla vicenda della “Costituzione Europea” e, poi, dei trattati di Lisbona laddove tutti i numerosi forti appelli di San Giovanni Paolo II per l’inserimento, in quella carta costituzionale, di un qualche esplicito riferimento alle radici cristiane dell’Europa, vennero più volte ripetutamente respinti con motivazioni platealmente risibili.
Un rifiuto, questo, davvero clamoroso quanto ipocrita, tanto che il Card. Ratzinger, che di lì a pochi giorni sarebbe stato eletto al Soglio Pontificio, lo commentò, il 5 aprile 2005 nell’Eremo di Subiaco, con parole inequivocabili: “Le ragioni che si danno nel dibattito pubblico per questo netto <<no>> sono superficiali ed è evidente che più che indicare la vera motivazione la coprono”.
Le vere motivazioni che stanno dietro il dibattito pubblico, spiegò: “presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea”.
Se a questo punto rivolgiamo la nostra attenzione alle motivazioni che, negli anni dell’immediato dopoguerra, portarono all’avvio della costruzione europea, troveremo sensibilità ed attenzione alla trascendenza ed alla dimensione religiosa. Il che contraddice radicalmente la scelta del neoliberismo-illuminista di sradicare dall’identità dell’Unione Europea ogni radice religiosa, in primis, naturalmente, quella cristiana.
Infatti, la visione dell’Europa dei padri fondatori – Adenauer, Schuman e De Gasperi – era al contempo fortemente identitaria, ma anche federale, pluralista e solidale. È in questo contesto che vanno lette le numerose sollecitazioni mosse alle Istituzioni europee da tutti i Pontefici invitandole a ritrovare lo spirito dei padri fondatori. Il che significa invertire la rotta di un’Europa che costruita solo sulla logica dei parametri economici privilegia necessariamente gli interessi dei singoli Stati più forti, rispetto al bene comune europeo.
La ripresa, dopo la pandemia, non potrà non considerare la flebile risposta europea rispetto all’esplosione di una tragedia storica e dai contorni ancora indecifrabili. Il progetto politico comunitario, e i suoi rappresentanti politici, hanno mostrato tutti i loro limiti da ogni punti di vista, smascherati da un minuscolo, infinitesimale batterio, che ha svelato i limiti congeniti: sulla rapidità di intervento, della comprensione globale e univoca del fenomeno, sulla capacità di coordinare gli interventi, di offrire aiuto ai singoli paesi, di superare egoismi e particolarismi in funzione di un obiettivo comune, di mobilitare risorse, abbattendo le burocrazia e le pastoie politiche.
Sulla capacità di individuare strumenti finanziari utili, efficienti e che non ipotechino il futuro sociale economico, identitario e politico dei singoli Stati membri.
E’ mancato, in una parola, l’europeismo, la capacità di fare fronte unico e compatto di fronte all’emergenza. Un tema che se si è rivelato in tutta la sua clamorosa e devastante pienezza nel primo vero, storico incrocio della Ue. Un evento che non può che farci riflettere sull’incapacità di analisi, gestione e risoluzione di problematiche future anche di minor impatto e invasività rispetto al coronavirus.
La pace è una conquista assodata, nessuno la mette più in discussione, ma la globalizzazione ha aperto lo squarcio del contagio, finanziario e fisico. E restano sullo sfondo le grandi sfide su cui si era costruita una idea di Europa forte e autonoma, dalla lotta al terrorismo islamico, l’invasione di masse di disperati dall’Africa e dall’Asia, la difesa del multilateralismo nelle crisi regionali, della crescita sostenibile, la tutela dell’ambiente e l’approvvigionamento energetico.
Emergenze appena approcciate dalla Ue e mai messe in cantiere con politiche di ampio e lungo respiro. il principio del bene comune coincidente con il bene del singolo vale ovviamente anche per i singoli stati dell’Unione. “Il ruolo dello Stato (e in questo caso dell’Europa) è proprio quello di usare il bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire.
La mazzata della pandemia impone una riflessione su questa Europa che sembra attraversare una crisi irreversibile. E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, la debolezza della politica, la cui eclissi si è venuta allargando negli ultimi vent’anni, di fronte al potere irresponsabile di tecnici e della grande finanza, con la resa incondizionata alle teorie neoliberiste, la trasformazione dell’economia di mercato” in “società del mercato”: (Cfr. le encicliche sociali d San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Papa Francesco) una dottrina ed una concezione del mondo della vita, che fa del profitto l’unico scopo della vita e della mercificazione di tutto e di tutti, persino del corpo, lo strumento per raggiungere l’obiettivo. Da tutto questo si deve ripartire per cambiare.
La crisi politica e culturale dell’Europa precede la crisi economica ed anche quella sanitaria. Tornare a ripensare l’Italia e il suo modo di stare in un contesto poco solidale e poco reattivo sarà il primo passo su cui costruire la ripartenza del nostro Paese e quella del resto del Continente. Con o senza virus.
Un programma sulla ripartenza: per una nuova politica industriale
Tutti gli ultimi indicatori economici e sociali (PIL fortemente in calo secondo la previsione del Fondo Monetario di meno 9% e secondo Goldman Sachs addirittura dell’11,4% a fine anno e se i contagi dovessero ripartire nei prossimi mesi si potrebbe arrivare ad un numero di meno il 13,1%; forte contrazione del portafoglio ordini (solamente la meccanica perde 1,7% miliardi al giorno); debito pubblico al 155%; deficit al 10%; cassa integrazione per circa 2 milioni di lavoratori; il blocco delle vendite all’estero con un calo del 13,5%; aumento della povertà per 10 milioni di cittadini (più 3 milioni di nuovi poveri); crollo degli investimenti del 15%; incremento della disoccupazione del 4% ratificano per il nostro Paese un drammatico ed esteso stato di crisi, di una vera e propria sofferenza, derivante dal blocco della produzione e delle attività a causa della pandemia che ci ha investito.
Alla luce di questa situazione perciò è chiaro a tutti che per quanto spaventose ed indicative, le cifre del disastro italiano non esauriscono l’ampiezza e la profondità della crisi, che non è solo crisi economica strutturale, ma anche di interpretazione, di rappresentanza e di governo della società italiana.
Sono numeri che parlano di una situazione drammatica. Ogni tragedia, però, porta con sé nuove opportunità e, dunque, il tempo che si apre dinanzi a noi è proprio il tempo delle opportunità. Il che non vuol dire che ciò’ che verrà dopo sarà automaticamente migliore di ciò che è stato ma che potrà esserlo soltanto, però, se l’uomo si mostrerà capace di riprende il suo percorso di “cercatore di senso” prima che di “massimizzatore” di utilità.
La riflessione non può non partire allora dall’accettazione che il tempo della gloria del neoliberismo è un tempo concluso e quest’ultimo non è più trionfante come lo è stato per un intero ciclo. Per chi, da oltre un decennio, si è posto il tema della trasformazione in un’ottica di riconquista dell’essere e della persona, il percorso risulta meno impervio e meno traumatico.
Possiamo definirlo un mutamento di coscienza, una nuova direzione, un nuovo stile di vita nel quale la speranza non rappresenta una attesa passiva ma un agire concreto e quotidiano, che può portare alla salvezza dell’umanità, oggi a rischio. Punto di partenza di questo mutamento è la riflessione e il riconoscimento di quello che è avvenuto e di come siamo arrivati fin qui. L’impossibilità di partecipare alle funzioni religiose durante il lockdown ha accresciuto la domanda di senso religioso così come il blocco delle attività ha costretto alla riflessione.
I neoliberisti che hanno dominato la scena economica e politica del ciclo che si sta chiudendo hanno provato a farci credere che le leggi dell’economia fossero imposte e che non sarebbe stato possibile, né noi saremmo stati in grado, di intervenire sulla recente, come su ogni, congiuntura e ancora meno di liberarci di realtà “strutturali”.
Sono proprio i difensori di questo determinismo economico i principali responsabili di una crisi che hanno in larga misura essi stessi generato e sviluppato dimenticando, in nome innanzitutto di interessi individuali, i bisogni delle persone, delle famiglie e delle aziende che devono lottare permanentemente e sempre con maggiore difficoltà per la propria e l’altrui sopravvivenza.
È quello che è accaduto nel momento in cui l’economia finanziaria si è separata dall’economia reale e questa ha rotto i suoi legami con la società da cui doveva essere indissociabile. Tutto questo va invertito e va ricostruita una nuova politica industriale. Ma per far questo non potrà esserci gestione e ridimensionamento del dissesto senza governo della società, e viceversa.
Il risanamento dell’economia, allora, deve accompagnarsi ad una profonda e articolata revisione culturale del concetto stesso di Stato – da quello liberale classico a uno modernamente solidaristico e sociale – che riconosca, interpreti e ricomponga l’insieme delle trasformazioni sociali che ha comportato lo tsunami del Covid 19, inserendole in un grande progetto di sviluppo non solo economico ma anche civile.
Ciò spiega perché, nell’attuale debolezza della politica – di quella alta, capace di analisi e di progetti – le questioni poste dall’epidemia siano sempre più forti e le risposte delle istituzioni, invece, siano state deboli, affannate, tra loro slegate ed improvvisate.
Non è questa la sede per dettagliare la mole delle questioni di gestione e di governo la cui entità, complessità ed urgenza è tale da richiedere oggi un vero e proprio progetto di rinascita nazionale.
E’ però possibile indicare alcuni fondamentali temi-guida sui quali concentrare immediatamente l’attenzione, l’analisi, il dibattito, lo sforzo progettuale.
In un momento come questo di profonde inquietudini sociali ci sono almeno tre buone ragioni che lo Stato, le forze politiche, le istituzioni si occupino soprattutto delle piccole imprese. Esse, infatti, rappresentano:
- la base imprenditoriale e produttiva dell’intero sistema economico;
- un potente ammortizzatore economico e sociale tanto nelle fasi di espansione quanto inquelle di crisi economica come quella che stiamo vivendo;
- l’incubatrice di nuova imprenditorialità.
Queste caratteristiche fanno del sistema delle imprese minori un importante strumento per ridisegnare il modello di sviluppo del nostro Paese, per moltiplicare i soggetti proprietari e produttivi, per creare una più forte e articolata società civile.
Lo sviluppo economico e industriale italiano degli ultimi settant’anni ha sostanzialmente disatteso un principio cardine della Costituzione laddove (art. 47) si intende favorire la diffusione della proprietà, anche azionaria, e dell’imprenditorialità diffusa.
Questo dovrà comportare un grosso sforzo di investimenti nelle infrastrutture e nello sviluppo capillare dell’impiego delle tecnologie informatiche, delle piattaforme Internet/ IA, dei Big Data e del cloud computing non solo per le aziende manifatturiere ma anche nello sviluppo di ogni tipologia di servizi. L’investimento necessario sarà facilitato dalla maggiore consapevolezza da parte dei cittadini e dovrà ridurre il Gap che ci separa dagli altri Paesi europei in primis, consentendo grossi risparmi nel futuro.
Ciò è possibile solo promuovendo un diverso e più ricco sistema di opportunità e di convenienze incentrato su grandi investimenti pubblici di base (politiche di agevolazione fiscale e di semplificazione amministrativa, banca dati, ricerca e sviluppo, servizi di sostegno alla produzione e alla commercializzazione, accesso al credito, infrastrutture) che motivino i privati a fare impresa, e questa a orientarsi anche in direzioni finora nuove, ma capaci di rivitalizzare la società civile e di creare nuova e più larga occupazione. Un settore con queste caratteristiche esiste, ed è cruciale e imponente: i servizi sociali.
Scuola, cultura, sanità, servizi urbani e ambientali, ma anche servizi all’infanzia e agli anziani, attività di solidarietà e di volontariato, cooperazione. Quest’area, che ha dato in gran parte una buona prova durante la pandemia, pur essendo stata nel passato fattore di crisi sociale e finanziaria dello Stato, va urgentemente sottratta al degrado e al dissesto e trasformata da problema in grande opportunità.
La strada è una: sottrarla alla gestione dello Stato e affidarla a un mercato – privato negli strumenti e nelle caratteristiche fondamentali, ma pubblico nelle finalità – regolato e controllato dallo Stato. Un mercato libero perché praticato in regime di concorrenza, ma vincolato nella qualità delle prestazioni e garantito nell’accessibilità ai servizi.
Attirati dalle dimensioni attuali e crescenti di quest’area economica, imprese e capitali privati (anche non necessariamente nazionali) vi confluirebbero, trovando remunerazione e ruolo, e finanziando un incremento della spesa sociale – altrimenti impensabile – generatore di occupazione non fittizia e durevole.
Professionisti, operatori professionali, società di servizi, fondazioni, cooperative, agenzie di solidarietà, organizzazioni del volontariato, arricchirebbero la platea e la qualità dei partecipanti. Non si tratta di sogni.
In Italia, questo settore rappresenta il 4,3 del PIL conta oltre 800mila addetti, pari all’3,4% dell’occupazione totale. Negli altri Paesi più sviluppati le percentuali sono notevolmente superiori. E tutti gli studi in materia assegnano a questo settore larghissime e costanti percentuali di crescita in termini di investimenti, forme imprenditoriali e professionali, occupazione.
Se questa è la nuova frontiera dell’imprenditoria privata, soprattutto minore e anche professionale, non si può tralasciare di svilupparne e consolidarne le tradizionali aree di attività.
Su questa linea vanno però affrontati i nodi strutturali che frenano la ristrutturazione, la modernizzazione e la competitività internazionale di tutto il sistema.
Sul piano della regia, occorrerebbe individuare un centro strategico unico per le decisioni di politica industriale. Un centro unico che elimini l’attuale dispersione di competenze fra ministeri, regioni e statuto speciale, e anche regioni a statuto ordinario che sempre più di frequente legiferano in materia di politica industriale.
Un programma sulla ripartenza: “Il denaro deve servire, non governare”
è quanto indicava il documento “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones”, redatto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ed emesso il 6 gennaio 2018. Per “servire” il denaro deve trasformarsi in economia “reale”, in sintesi: investimenti produttivi, ricerca ed innovazione, infrastrutture, vera occupazione (non assistenzialismo fine a se stesso).
L’intervento pubblico in economia, da non confondersi con le vecchie statalizzazioni del tipo “socialismo reale”, è uno strumento, anche in applicazione del principio di sussidiarietà, riconosciuto dalla Dottrina Sociale per salvaguardare “il Bene Comune”.
In questo ambito l’intervento pubblico, considerata l’eccezionalità dell’emergenza post Covid 19, va finalizzato al rilancio infrastrutturale e alla difesa delle industrie strategiche per il Sistema Paese, a tutto il tessuto produttivo italiano costruito prevalentemente da PMI ed alla tutela del sistema del Credito.
Rispetto a questi assi l’intervento diretto dello Stato deve mirare a favorire gli investimenti, a sbloccare la fase attuativa delle grandi opere (attraverso la nomina di commissari straordinari), ad individuare i settori fondamentali per la sicurezza e lo sviluppo del Paese (industria dell’acciaio, dell’energia, telecomunicazioni, robotica ecc. ecc.).
Per la creazione e la diffusione dell’innovazione a tutti livelli, dovremo assicurare un coordinamento costante fra le università, le amministrazioni locali, le aziende del territorio e le loro associazioni. Alcuni esempi di questo tipo sono già operanti con successo nel territorio piemontese, già in precedenza profondamente colpito dalla crisi dell’industria automotive.
Sarà indispensabile, oltre alla iniezione di liquidità nel transitorio, creare nuovi posti di lavoro con massicci investimenti pubblici e privati programmando il tipo di settori industriali da privilegiare, pensando alle peculiarità specifiche e competenze acquisite da parte del nostro Paese.
Un programma sulla ripartenza: Sul piano della strategia
Bisognerebbe agire su quattro versanti:
- quello della finanza d’impresa, creando ulteriori possibilità di accedere al capitale di rischio (il solo che possa finanziare la crescita dimensionale e l’innovazione permanente) delle imprese minori attraverso sempre nuovi strumenti di finanza innovativa;
- quello dell’innovazione di prodotto e di processo, non limitandosi a finanziare l’acquisto di tecnologia incorporata nei macchinari, ma stimolando l’innovazione autonoma attraverso una rete di centri di ricerca, parchi tecnologici, servizi di collaudo e certificazione;
- quello del sostegno all’esportazione e all’internazionalizzazione, attraverso incentivi finanziari e di servizi alla joint ventures e alle trading company.
- innovazione organizzativa, favorendo attraverso la connessione delle imprese in sistemi di polo o di bacino – il superamento dei limiti (ma non la perdita dei benefici) insiti nella piccola dimensione aziendale.
L’industria in molti settori dovrà riconvertirsi, la salute diverrà un fattore prioritario all’interno delle aziende, e molti investimenti orientati negli scorsi anni verso l’Est del mondo dovranno essere localizzati nuovamente sul territorio nazionale. Anche la funzione “pubblica” del credito all’economia reale e di prossimità, distorta da una finanziarizzazione dell’economia, riacquisterà la propria importanza.
La crisi chiama all’appello tutti, Stato, mercato e terzo settore, nella massima estensione del principio di sussidiarietà.
Così definito nelle prospettive nuove e in quelle tradizionali, il ruolo della proprietà e dell’imprenditorialità diffuse – importante in tutto il Paese – può essere addirittura decisivo nel Mezzogiorno, dove notevoli risorse finanziarie non riescono a trovare localmente impieghi produttivi.
In questo quadro un ruolo chiave tocca al sistema creditizio eccessivamente condizionato dalle normative europee per la supervisione bancaria che rendono sempre più difficile il credito proprio alle PMI imponendo accantonamenti di riserve a fronte dei prestiti alle famiglie e alle imprese in proporzione più pesante quanto più le imprese risultano meno strutturate che spesso sono quelle più piccole.
Per fare un esempio se un debitore risulta in ritardo di appena 30 giorni nel rimborso di una scadenza – per quanto sia in bonis – la banca creditrice è obbligata ad accantonare nuove riserve: non solo per coprire il rischio di eventuali perdite realizzate su quella rata scaduta, ma anche su tutte quelle “attese” (proiettando cioè l’ipotesi di perdite paventate su un singolo rimborso su tutta la durata del rapporto stipulato con quel cliente).
Queste regole appesantiscono l’intero sistema bancario e l’effetto combinato di ulteriori consistenti incrementi di requisiti di capitale con una redditività degli attivi creditizi molto modesta va in direzione esattamente opposta rispetto all’obiettivo necessario di aumentare la quantità di credito nei confronti delle imprese e delle famiglie europee, con il risultato di deviare tale liquidità al di fuori del circuito creditizio.
C’è poi un altro aspetto che risulta difficile nel rapporto fra banca e piccola impresa:
se quest’ultima opera in un settore considerato a rischio, gli accantonamenti sulle perdite attese per la durata del contratto dovranno avvenire anche prima che si registrino rimborsi in ritardo. Questo spiega in buona parte perché il credito alle piccole e micro imprese continui a erodersi sempre più.
Negli ultimi anni, complice la crisi economica e finanziaria, l’introduzione di queste normative volte a consolidare gli istituti bancari e la veloce evoluzione degli strumenti tecnologici, il sistema bancario, non solo in Italia ma anche nel resto dell’Europa e del mondo, ha attraversato una fase di profondo cambiamento.
- Nel 2008 nei paesi dell’Unione europea operavano quasi 8.525 istituti di credito con quasi 238.000 sportelli.
- Dopo 10 anni, il numero delle banche è sceso a 6.088 e quello degli sportelli a poco meno di 174.000.
- Anche in Italia si è registrata una tendenza analoga. Se, infatti, nel 2008 le banche presenti erano 799 con 34.146 sportelli a fine 2018 risultavano essere 505 con 25.409 sportelli.
Uno scenario profondamente diverso da quello di dieci anni prima che ha portato ad un cambiamento strutturale del sistema bancario e ha, inevitabilmente, determinato un nuovo modo di sviluppare il rapporto con la propria clientela.
Questa tendenza, prefissandosi un miglioramento dell’efficienza delle banche, produce, tuttavia, un allontanamento sempre maggiore della banca dalla propria clientela. Ma tutto ciò ha un prezzo molto elevato.
Un recente working paper della Banca d’Italia
“Gli effetti della chiusura degli sportelli sulle relazioni di credito” fa emergere come, alla chiusura di filiali sia associato un aumento della probabilità di interruzione del rapporto con la relativa clientela e un effetto sulla riduzione del credito per le imprese di dimensioni più piccole.
Inoltre, la chiusura di sportelli bancari, registrata negli ultimi anni in queste proporzioni decisamente ampie, determina, inevitabilmente, cambiamenti significativi nella struttura bancaria locale, riducendo, ad esempio, il grado di concorrenza con ripercussioni evidenti sul livello di accessibilità al credito da parte delle piccole imprese.
In dieci anni il numero dei comuni bancati, ossia che hanno almeno uno sportello bancario, è sceso da 5.922 a 5.371 (551 comuni in meno, quasi il 10% del totale): un’assenza con profonde conseguenze sullo sviluppo economico di queste aree rispetto alla quale nessuna evoluzione tecnologica sarà in grado di ovviare.
Le politiche di consolidamento del sistema sviluppate negli anni hanno portato all’affermazione di modelli bancari di grandi dimensioni che hanno visto scomparire realtà locali che godevano di visibilità e aumentato la distanza dei centri decisionali dal resto della rete, centralizzando le procedure per ottimizzare i costi ma con ripercussioni sul credito e sulla capacità di classificare la clientela attraverso un contatto diretto e non tramite algoritmi.
Un programma sulla ripartenza: Sistema bancario
Il sistema bancario, dunque, deve essere profondamente rimodulato non su obiettivi di mera crescita quantitativa, bensì su funzioni di sviluppo complessivo dell’economia e della società.
Ciò significa, innanzitutto, una diversificazione di grandezze, di vocazioni, di formule proprietarie e d’impresa, di interventi. Colpito da una vera “sindrome da concentrazione” condotta spesso solo sulla base di ratios finanziari, il sistema bancario corre un rischio gravissimo: perdere il radicamento con le realtà locali dalle quali è nato e per quali deve operare.
Le enormi differenze tra un territorio ed un altro, tra un distretto economico e l’altro, l’enorme varietà dei bisogni, la rapidità dei mutamenti, esigono un forte e sempre più sofisticato sistema bancario locale che sappia interagire in tempo reale con i fabbisogni di crescita delle imprese, sostenendone la diversificazione e l’innovazione del loro stesso modo di essere e di fare impresa in una società che è già molto cambiata e che, per battere la recessione economica e il degrado civile, dovrà darsi obiettivi di cambiamento.
Già prima della crisi dovuta alla pandemia al centro dell’agenda delle politiche della Banca Centrale Europea era entrato prepotentemente il tema della “sostenibilità” ambientale e dei cambiamenti climatici.
Christine Lagarde ne ha fatto un tratto caratterizzante della sua presidenza. Il programma dell’ONU è “L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” per le persone, il pianeta e la prosperità con 17 obiettivi articolati in 169 traguardi da raggiungere entro il 2030.
Ora la sostenibilità che significa soprattutto economia reale, tutela del tessuto sociale, responsabilità e centralità dei territori dovrà essere un tratto caratterizzante e presente anche nel sistema bancario con un nuovo protagonismo delle Banche del territorio (Banche Popolari e BCC, le antiche Casse Rurali ed Artigiane), che possono svolgere il ruolo che gli è connaturato soprattutto grazie al fatto che la propria attività è rivolta prioritariamente alle famiglie e alle imprese piccole e medie che, differentemente, in un sistema monolitico, sarebbero destinate all’esclusione dal credito.
I fattori costitutivi e identitari di tutte le istituzioni di prossimità rendono questi soggetti insostituibili per ogni “politica sulla sostenibilità” produttiva perché in grado di declinare e orientare con efficacia la propria tradizionale attività di raccolta del risparmio e di impiego delle risorse direttamente nelle aree dove tali risorse vengono generate.
Nel pensare e nel progettare un sistema bancario che faccia propria la sostenibilità e che renda ancora possibile il credito alle PMI, basterebbe guardare agli Stati Uniti, al Canada, o, più vicino, a Francia e Germania.
In questi Paesi i grandi gruppi bancari esistono accanto a banche diverse e più legate al territorio che possono garantire il credito a coloro che altrimenti ne sarebbero esclusi e possono contribuire a indirizzare la trasformazione del sistema economico nel solco della sostenibilità.
Si chiama biodiversità del sistema bancario.
Ripensare il modello di banca finora promosso a livello globale risulta, pertanto, necessario per ricreare quell’habitat che permetta una crescita sostenibile dell’economia reale, possibile solo partendo da una conoscenza approfondita delle singole realtà e coinvolgendo un numero ampio di imprese anche di dimensioni piccole in modo da favorire quel processo di inclusione, diffusione e condivisione del capitale che è stato alla base dello sviluppo sociale ed economico dei paesi industrialmente più avanzati e che, invece, rischia di essere minacciato da un ridimensionamento del livello di concorrenza nei mercati e dalla riduzione di quella biodiversità solo auspicata e mai realmente difesa.
Questa crisi, dunque come ci ricorda profeticamente Benedetto XVI nella Caritas in Veritate (n.21):
- Dott. De Lucia Lumeno Giuseppe Dott. Delle Site Benedetto
- Dott. Fabbreschi Davide
- Dott. Ferraro Angelo
- Dott. Grespan Sandro Dott. Pedrizzi Riccardo Dott. Rivolo Pier Franco Dott. Saleri Pierpaolo